I dodici principi dell’illegalità della povertà
1. Nessuno nasce povero né sceglie di esserlo
La prima parte dell’affermazione sembra falsa. È vero che una bambina che nasce in una famiglia di contadini in fuga dalla siccità in Etiopia o in una baraccopoli di Mumbai nasce “diversa” dalla bambina di un membro della famiglia reale britannica. Ma come essere umano “nasce uguale”. Tutti noi nascendo riceviamo la vita, prima ancora di “vivere” in condizioni considerate povere o ricche. È lo stato della società nella quale nasciamo che “ci fa” poveri o ricchi. Certe persone o certi gruppi sociali possono decidere di vivere in una situazione di sobrietà condivisa. Si pensi alle comunità buddiste, al “pauperismo” dei francescani, al modello di società ispirato alla povertà evangelica. Numerose sono oggi anche le comunità laiche fondate su principi analoghi. In questi casi si tratta di un modo di vita scelto, libero. Non è la povertà subita, come quella dei tre miliardi di esseri umani che vivono oggi in stato di povertà perché esclusi dal diritto umano e sociale ad una vita degna e dignitosa, il più spesso contro la loro volontà e desiderio.
In realtà, nessuno vuole essere povero. La povertà fa paura, e nel mondo di oggi soprattutto la povertà economica. Decine di migliaia di lavoratori italiani hanno paura di perdere il posto di lavoro perché temono di perdere reddito e poi, fra qualche anno, di trovarsi in situazioni estremamente precarie sul piano finanziario. Per questo i lavoratori e dipendenti dell’ILVA di Taranto hanno protestato contro il PM che ha chiuso la loro fabbrica per motivi di salute e preferiscono continuare a lavorare. L’impoverimento li preoccupa più della loro salute.
2. Poveri si diventa. La povertà è una costruzione sociale
Già negli anni ’80 Don Tonino Bello aveva scritto: “Non è vero che si nasce poveri. Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti”.
La povertà non è un fatto di natura come la pioggia. È un fenomeno sociale, costruito e prodotto dalle società umane. Le società scandinave degli anni ’60-’80 sono riuscite a far sparire i processi strutturali d’impoverimento e a ridurre i processi d’esclusione ad alcune sacche molto limitate di povertà materiale. Altre società, invece, fondate su principi e pratiche sociali differenti da quelle scandinave, hanno prodotto e producono inevitabilmente fenomeni di estesa povertà. È il caso degli Stati Uniti, tra tanti altri paesi.
3. Non è la società povera che “produce” povertà
Gli Stati Uniti sono il paese più ricco al mondo in termini monetari, eppure l’impoverimento di decine di milioni di cittadini (su 300 milioni) fa parte della loro storia. La povertà (non solo materiale) si è nuovamente sviluppata anche nelle società scandinave a partire dalla seconda metà degli anni ’90, perché le classi dirigenti hanno cambiato la loro visione del mondo e della società ed operato scelte diverse da quelle del passato, ridando così vita ai processi d’impoverimento.
4. L’esclusione produce l’impoverimento
L’esclusione riguarda sia l’accesso economico e sociale ai beni e ai servizi necessari ed indispensabili ad una vita degna e dignitosa, sia l’accesso alle condizioni e alle forme di cittadinanza civile, politica e sociale odierna. L’esclusione tocca l’insieme della condizione umana.
5. In quanto processo strutturale, l’impoverimento è collettivo
Esso non riguarda solo una persona ma i nuclei familiari, intere popolazioni (le famiglie di immigrati, i nomadi, i villaggi senza futuro, le zone colpite da recessioni economiche, gli abitanti di quartieri degradati…), e categorie sociali particolari (lavoratori, contadini, segmenti della classe media, bambini, donne, giovani che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, anziani…). Oggi è sempre più frequente, da parte degli uffici di statistica, riferirsi alle famiglie e non al singolo individuo per dare la misura dello stato d’impoverimento e dei cambiamenti intervenuti.
6. L’impoverimento è figlio di una società che non crede nei diritti di vita e di cittadinanza per tutti né nella responsabilità politica collettiva per garantire tali diritti a tutti gli abitanti della Terra
I gruppi dominanti non credono nell’esistenza dei diritti umani di vita e di cittadinanza (universali, indivisibili, imprescrittibili). Se sono obbligati dalle leggi a rispettarli, per esempio le Costituzioni, essi credono che non siano fruibili per tutti. Inoltre, negli ultimi decenni, sono riusciti ad imporre che l’accesso ai diritti umani e sociali deve essere pagante (è il caso del diritto all’acqua o della salute di base). Tanto meno credono nella responsabilità politica collettiva, diretta o rappresentativa, affinché tali diritti siano garantiti a tutti gli abitanti del Pianeta. Essi credono invece nella governance economica globale fondata sugli “stakehorlders” e che considerano essere la forma più efficace ed efficiente di gestione delle risorse disponibili.
7. I processi d’impoverimento avvengono in società ingiuste
Le società ingiuste sono negatrici dell’universalità, dell’indivisibilità e dell’imprescrittibilità dei diritti di vita e di cittadinanza e, quindi, negatrici dell’uguaglianza di tutti gli abitanti del Pianeta di fronte ai diritti. Queste società credono che l’accesso economico e sociale ai beni e servizi necessari e indispensabili alla vita sia una questione di iniziativa personale (o di gruppo) e di merito individuale. Lo stesso dicasi riguardo l’accesso alle condizioni e alle forme di cittadinanza civile, politica e sociale. Nelle società ingiuste, l’accesso non può essere che selettivo e condizionato secondo le regole e i criteri stabiliti dai gruppi dominanti.
8. La lotta contro la povertà (l’impoverimento) è anzitutto la lotta contro la ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice (l’arricchimento)
C’è impoverimento perché c’è arricchimento. I processi d’impoverimento avvengono perché nelle società ingiuste prevalgono i processi di arricchimento inuguale, ingiusto e predatorio. Questo ha indotto molte società, in particolare quelle europee, a mettere l’obiettivo della redistribuzione della ricchezza al centro delle politiche di lotta per la riduzione e l’eliminazione della povertà. Una scelta decisiva ed obbligatoria. Allorché, però, tale scelta è stata fatta o è diventata la sola visione strategica, per di più ridotta a meccanismi di ripartizione del reddito, non è stata in grado di promuovere i cambiamenti strutturali indispensabili, come la storia dimostra.
9. “Il pianeta degli impoveriti“ è diventato sempre più popoloso a seguito dell’erosione e della mercificazione dei beni comuni perpetrate a partire dagli anni ’70
I gruppi dominanti hanno dato sempre di più valore unicamente alla ricchezza individuale. Essi hanno cancellato nell’immaginario dei popoli la cultura della ricchezza collettiva, in particolare dei beni comuni pubblici. Hanno ridotto tutto a “risorsa” (inclusa la “risorsa umana”). Tutto è diventato una merce il cui “diritto all’esistenza” dipende dal suo contributo alla produzione di ricchezza per il capitale privato. Conseguentemente, il lavoro, l’educazione, la protezione sociale, sono stati trattati come “costi” e come tali da razionalizzare, tagliare e privatizzare. Non vi sono comunità umane, ma mercati; non vi sono diritti collettivi ma il potere d’acquisto; non c’è solidarietà ma competizione e compassione, non c’è cooperazione e mutualismo ma “guerra” per le risorse, per la propria sicurezza energetica, idrica, alimentare.
10. Le politiche di riduzione e di eliminazione della povertà perseguite negli ultimi quaranta anni sono fallite perché si sono attaccate ai sintomi (misure curative) e non alle cause (misure risolutive)
Anche a causa del perseguimento di politiche economiche e sociali aventi obiettivi antitetici e prioritari rispetto a quelli anti-povertà, le politiche “contro” la povertà si sono tradotte, de facto, in fattori di accentuazione dei processi d’impoverimento e, quindi, in politiche “contro i poveri”. Da qui i fenomeni di criminalizzazione dei poveri.
11. La povertà è oggi una delle forme più avanzate di schiavitù perché basata su un “furto di umanità e di futuro”
A differenza della schiavitù tradizionale, fondata sulla lacerazione netta tra esseri umani e non esseri umani, la schiavitù che si traduce nella povertà odierna fa salvo il principio dell’unicità di appartenenza degli esseri umani, per poi “fissare” una linea di separazione considerata inevitabile tra esseri umani liberi di pensare, liberi di futuro e quelli non liberi, tra esseri umani autonomi ed esseri umani sottomessi, tra esseri umani cittadini e quelli privi di cittadinanza. Si tratta di un “furto di umanità” perpetrato dai gruppi dominanti nei confronti di miliardi di esseri umani esclusi dalla cittadinanza, ai quali per conseguenza si è anche rubato il futuro.
12. Per liberare la società dall’impoverimento bisogna mettere “fuori legge” le leggi, le istituzioni e le pratiche sociali collettive che generano ed alimentano i processi d’impoverimento
È possibile “uscire dalla povertà” e liberare la società dall’impoverimento, non certo applicando le misure che da 50 anni sono imposte, ancora recentemente, dalla Banca mondiale e che sono miseramente fallite, ma mettendo fuori legge quelle disposizioni legislative (e misure amministrative), quelle istituzioni e quelle pratiche sociali collettive che, ai livelli decisivi locali, nazionali e mondiali, costituiscono gli agenti di alimentazione e di crescita dei processi di ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice.
Il traguardo 2018
Domandiamo che l’Assemblea Generale dell’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, approvi nel 2018, 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, una risoluzione nella quale si proclami l’illegalità di quelle leggi, istituzioni e pratiche sociali collettive che sono all’origine e alimentano la povertà nel mondo.
Le campagne di azione che condurremo tra il 2012 e il 2017 in diversi Paesi del Pianeta mirano a dimostrare che è possibile concretizzare la messa fuorilegge delle cause dell’impoverimento.
Le fabbriche della povertà: i fattori dell’impoverimento
La società ha fabbricato e continua a fabbricare impoveriti, con maggiore forza ed “efficacia” a partire dagli anni ’70-80. Quali sono i principali fattori strutturali alla base dei processi d’impoverimento?
La produzione degli impoveriti avviene in luoghi e spazi sociali ben definiti anche se diversi a seconda dei paesi, delle regioni e dei tempi. Non vi sono “leggi naturali d’impoverimento”, ma soggetti collettivi (pubblici e privati) e meccanismi di funzionamento. Vi sono cioè “le fabbriche” dell’impoverimento. Esse funzionano – è il caso di dirlo – giorno e notte. I suoi “lavoratori” non scioperano mai. Sono soprattutto “locali” pur essendo prodotti da “fabbriche sempre di più globali”.
La tipologia proposta qui di seguito vale essenzialmente per le società occidentali ed “occidentalizzate”, cioè oramai per una larghissima parte delle società attuali. Si tratta di una tipologia elaborata a partire dalle dinamiche che hanno dato spazio alla non universalità della dignità umana, ai non-diritti ed alla non-cittadinanza.
L’impoverimento avviene attraverso le seguenti fabbriche:
– la fabbrica dell’inevitabilità della povertà, alimentata da un immaginario collettivo molto diffuso nel mondo costruito sulla “naturalità” della povertà;
– la fabbrica dell’ineguaglianza, che approvvigiona pratiche sociali e collettive quali il buonismo, il paternalismo, il caritatismo assistenziale, la politica dell’aiuto;
– la fabbrica dell’esclusione e dell’ingiustizia, ovvero il dominio della triade “capitale, impresa, mercato” che legittimizza l’impoverimento sacralizzando il valore assoluto della ricchezza privata (accumulo del capitale e primato del reddito da capitale);
– la fabbrica della predazione della vita il cui motore principale è la finanziarizzazione dell’economia assunto a principio maggiore della regolazione delle relazioni tra gli esseri umani, e tra essi e la natura.