COSA È LA VITA: PARLANO GLI SCIENZIATI
Da “La vita autentica” di Vito Mancuso, teologo.
Qualcuno potrebbe pensare che con gli scienziati, adusi all’oggettività, il problema della logica della vita possa finalmente ricevere una risposta chiara e definitiva. Ma il dibattito degli scienziati riproduce la medesima divisione. Jacques Monod, Nobel per la medicina nel 1965, in “Il caso e la necessità” descrive l’universo come inospitale per la vita e l’uomo come “uno zingaro” ai suoi margini, e conclude: “L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso”. In aperto contrasto Christian de Duve, Nobel per la medicina nel 1974, scrive: “Alla famosa frase di Monod: ‘L’universo non era gravido di vita, né la biosfera era gravida dell’uomo’, io rispondo: ‘Lei sbaglia; erano gravidi”. E ancora: “Io considero questo universo non come uno scherzo cosmico, bensì come un’entità dotata di significato, fatta in modo tale da generare la vita e la mente, destinata a dare origine a esseri pensanti in grado di discernere la verità, di apprendere la bellezza, di sentire amore, di desiderare il bene, definire il male, sperimentare il mistero”. Chi, tra i due scienziati, ha ragione?
Ciò che conta rilevare è che lo scontro, qui, non è tra il cardinale Roberto Bellarmino e Galileo ma tra due Galileo, due uomini di scienza, entrambi premi Nobel, entrambi discepoli di Darwin nell’accettare l’evoluzione quale punto di vista privilegiato da cui considerare la natura. Ci sono altri esempi di come gli scienziati, quando si tratta di interpretare i dati oggettivi forniti dalla scienza in relazione al senso complessivo della vita, possano giungere a divergere radicalmente. In astrofisica c’è chi pone il non senso e l’assurdità quale sigla finale del tutto, come Steven Weinberg (Nobel per la fisica nel 1979), secondo cui “quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo”. E c’è chi, al contrario, è convinto che l’universo sia compenetrato da una logica orientata verso la vita, come Freeman Dyson, a lungo docente presso l’Institute for Advanced Study di Princeton: “Quanto più lo esamino e studio i particolari della sua architettura, tanto più numerose sono le prove che l’universo, in un certo senso, doveva già sapere che saremmo arrivati. Nelle leggi della fisica nucleare vi sono alcuni esempi molto singolari di coincidenze numeriche che paiono essere accordate tra loro per rendere l’universo abitabile” .
Ma la cosa stupefacente è che la contraddizione si ritrova persino all’interno degli autori stessi (quando non siano ideologicamente determinati). Prendiamo Darwin. Non ho motivo di dubitare che siano fondate le affermazioni di un suo illustre studioso quale Telmo Pievani: “L’evoluzione non è automaticamente associabile all’idea di progresso, ma a quella ben più generale di cambiamento. Darwin fu bene attento a non confondere la sua teoria con una dottrina del progresso: la contingenza ambientale dell’adattamento e la casualità della variazione gli impedivano di accettare una direzionalità o un qualsiasi piano di sviluppo nell’evoluzione”. E altrettanto vero, però, che Darwin stesso scrive nella conclusione di L’origine delle specie: “E siccome la selezione naturale opera esclusivamente tramite e per il bene di ciascun essere, tutti gli arricchimenti corporei e psichici tenderanno a progredire verso la perfezione”. Posso sbagliare, ma a mio avviso si tratta di un’affermazione abbastanza chiara di una “direzionalità” e di un “piano di sviluppo” all’interno della natura, il che indica che allo scienziato inglese non era del tutto estranea l’idea di una teleologia intrinseca all’evoluzione naturale, la quale del resto non a caso si chiama proprio evoluzione, cioè “sviluppo”, “movimento ordinato a un fine” (definizione del Vocabolario della lingua italiana Treccani). Il dilemma appare nettamente in una lettera di Darwin del 1870 a Joseph D. Hooker, insigne botanico: “Non posso guardare all’universo come al risultato di un cieco caso. Tuttavia non posso vedere prova di un disegno benevolo, o veramente di un disegno di qualunque tipo, nel dettaglio”. A prescindere dalle interpretazioni del pensiero di Darwin nel suo complesso, che lascio agli esperti, è evidente che siamo in presenza di un uomo che a proposito del processo vitale nella sua parabola complessiva non accettava né il cieco caso né il disegno, e negava la possibilità di una qualunque dogmatica, tanto teista quanto ateista.
La conclusione da trarre, a mio avviso, è la seguente: visto che i dati oggettivi a disposizione degli scienziati sono i medesimi, è evidente che le nette divisioni tra loro sono create dall’interpretazione dei dati, cioè dalla rispettiva visione del mondo. Dietro l’alternativa caso-disegno appare il conflitto metafisico di sempre, quello tra libertà e necessità. Il pensiero della necessità diffida della libertà e giunge a parlare di sacralità della vita naturale perché frutto di un preciso disegno; il pensiero della libertà diffida di una presunta oggettività naturale che non è frutto di alcun disegno e pone il primato della libertà. La divisione in bioetica affonda le radici nell’idea di natura e nel rapporto dell’uomo con essa.
Vito Mancuso, La vita autentica